Un destino, mi ripetevo, non è altro che tutte le volte che non hai rinunciato. Avrei dovuto anche stavolta. Non dovevo accettare. Restarmene scomoda, seduta in pizzo, Chissà dove.
Tornare a casa? Come sprofondare all’inferno.
Tuttavia c’erano altre strade. Certo che c’erano.
Adesso cosa me ne faccio dell’istinto a incamminarmi senza meta, diluendo le ore nei passi. Dell’unica disciplina che ho appreso, adesso, qui, cosa resta?
DICONO DI ME
Greta, alcove, cabine, la paura e la carne: entriamo nell’affascinante mondo letterario di un’autrice estremamente capace. In questa serie di rapidi e stordenti round letterari, l’autrice, al suo esordio, introduce il lettore in un mondo che ha categorie e metodi molto arcaici e risalenti nel tempo: ciò che infatti oggi viene semplificato al massimo (con termini quali suspense, coinvolgimento, trama ecc.) ha in realtà precedenti più nobili e non soggetti a invecchiamento.
Stop rew.
Stop rew.
Aggiungi colonna sonora. Play.
Si va in scena. Una volta, un’altra volta.
Una volta ancora.
A malapena il mio migliore amico si accorse della ‘filosofia dello stop rew’ all’indomani della pubblicazione di Greta tace. Alea iacta est. No no: riporto il tempo dove voglio io fin dalla primissima infanzia. Nella stanza azzurro cenere c’è una creaturina che sgrana certi occhioni di onice sulle svolte a casaccio, vicoli bui, sviste smargiasse, di chi la detiene. Mette le cassette nel mangianastri. E ascolta e riascolta la storia nel punto che decide lei. Il narratore, dopotutto, è suo fedele servitore.
E torniamo a un tot di tempo ‘dopo’. Dopo che l’amore si era dimostrato insoluto, e i creatori munifici carcerieri, e la forza del corpo il tramite di azzardi maggiori. E torniamo a un po’ dopo i tentativi di morire e morire. Come Greta, la sua autrice talmente non credeva nella morte da averla messa reiteratamente alla prova. Su: dimostrami cosa sai fare.
E c’è stazione Ostiense eretta come una sfinge a cercar testimoni. Tre giocatori, abbastanza già morti. Come accade per tutti i portali per altre dimensioni, la chiave d’accesso è piccolissima. Il Maestro rischia di perderla a ogni scrollata di spalle. Le mani in tasca. Giochicchiandoci. Sedotto da ipotesi per caso.
Torniamo a quando faceva tremare le mani come per un attacco di panico, leggere d’amore. E la voce franava nel compagno di banco.
Fra pugnali e velluto.
C’è nel bel testo di Le notti bianche di Muburutu:
‘ e in fondo chi era? Una maga nera una dama austera. E lui la avrebbe ammonita per quegli occhi tristi e il candore. Una fata vera, una baiadera, una naiade greca. Che gli aveva piantato germogli di enigmi nel cuore’.
Questa cosa che posso continuare a morire invecchiare mentre mi sigillano in tutte le pagine che non sono più vita vissuta diventare giovane ( non sono mai stata più giovane di ora !) nei libri di chi mi ha conosciuta in una manciata di anni. È un pensiero mostruoso esistere al di fuori del proprio controllo. Terrifico pensare ai giri che fa lo sperma risalendo pareti di scrittore. Ingorgandosi all’altezza del duodeno. Irrorando le carotidi. Scintillio di ipofisi. Conglomerandosi infine in idea nelle meningi. Mi figuro poi sbotti sul palato, un sapore di erba bagnata, tagliata di fresco. Colando dal naso. Mentre resto sigillata mento in tutte le pagine che non sono vita vissuta. Levandomi a me. Attraverso i miei passi
La scrittura di Alessandra è una necessaria liberazione, una vibrazione dei sensi che ammalia senza compiacere capace di dilaniare un mondo di ipocrisie e di affanni che attraversano i giorni di chi spera che niente muti. È carne che reclama la vita imprigionata dentro l'opacità di forme silenti di vita. È un'esplosione definitiva.
Mi affaccio e vorrei urlarlo. Ma non c’è nessuno sul vialetto. La luce di un lampione sgrana in punte aguzze, mossa dai goccioloni dell’acquazzone che scroscia fingendosi estivo. Non manco a nessuno, e fra poco, quando avrò trovato chi compri questa casa, non ci sarà un indirizzo, un luogo a noi noto, dove puoi tornare a cercarmi.
Sarò la sostituzione di persona che ha voluto il mio creatore. Senza nome, senza storia. E questa casa che ci conserva, il vetro a cui non mi accosto, lo specchio che non mi prenderà ancora, e il ticchettio della pioggia sul lucernaio.
Esplode il temporale, te lo ricordi? Qualcun altro accoglierà la maledizione. Non mi guardo. Scompaio, e tu attraverso cosa ho deciso io.
“Sono arrivate?”
“…Sì”
“In quante?”
“Diciamo che sono un problema se vuoi startene a leggere sotto il salice. Sono un bel problema anche se vuoi restartene su una pagina di Robert Penn Warren”.
“Meno se crolli sull’amaca”.
“Be’, l’idea di finire come la testa del maiale di Jack…”.
“Ma va! Non pungerebbero la tua bella faccia”.
E osservo lo schiocco di palpebre con cui si libera del mondo. E so che finirà con un gesto semplice. Ogni cosa avrà luogo. È già successo.
“Quando arriva il fresco mi accompagni a vedere cosa combinano nelle casette?
Quando arriva il fresco. Là fuori le cicale stanno a gola spalancata. Il sole il sole il sole per tutti.
Non per noi, due sedotti dal richiamo di queste muffe. Sepolti subito, per fare insieme le prove generali nel seminterrato, giacchè il personale di servizio e gli amici e i passanti e chiunque abbia una giornata da perdere si aggira sulla nostra testa. Scalpiccio come di cavalli da traino. Piedi sparsi. Cucina, sala da pranzo, poi cercano refrigerio in giardino. Passi sulla scala di legno, scricchiolii diffusi. Mi pare che per ciascuno che mette un’orma, noi, qui sotto, ci infossiamo ancora di un poco.
Alessandra Macrì
‘Non avrebbe mai potuto sopportarla accanto. Terrorizzato di scoprirla meno intatta, meno divertita. Oppure di non bastarle. Lara poteva andare con chi volesse, farsi toccare. Sarebbe stato magnifico iniziasse a farsi pagare per farsi guardare pure da quelli che la incrociavano per sparuti istanti per strada. Ma non avrebbe dovuto mostrarsi reale. Realizzata in una qualciasi cristallizzazione che pure lui aveva vagheggiato e vagheggiato e poi dipinto. L’aveva disegnata e stracciata e corrotta menandoselo per lei – indifferente a chi fosse l’oggetto della sua brama – nei modi più imprevisti. Di lei restavano a malapena i pantaloni calati alle caviglie quando accondiscendeva a deturparne la violenza del richiamo. Un’immagine ridicola di se stesso. Ecco con cosa coincideva quella femmina. La detestava. Dopotutto non c’era che questo nei suoi sentimenti: l’odio per non poterle ascrivere un dimenticatorio qualsiasi. La supplica perché non scomparisse.’
‘ Le calze a rete. Le aveva conservate come indumento privilegiato. Sbracate proprio all’altezza del sartorio, conferivano alla sua figura una autenticità più grande. Inestinguibile. S’era detta commenti così osservandosi subito, non appena l’uomo l’aveva fatta scendere sulla Fifth avenue, a un passo dal ponte sulla ferrovia deserta. Aveva sostato a lungo davanti alla grata arruginita tempestata di lucchetti. Roba da Tre metri sottoterra. Ecco a voi il sipario su Harlem. Una ferrovia perfettamente deserta. Nessun vagone. Nessuna corsa. Rete viaria allentata. Interruzioni. Il gesto automatico, automatizzato, con cui può aprirne le maglie, un maschio. Le calze a rete fanno da filtro di ogni strappo. Necessario. Quest’uomo non mi ha fatto male. Non mi rompe, perché gli servo’
Nessuno può correre per sempre da solo, i tessuti inziano poi a consumarsi, le riserve scarseggiano, e il respiro si spezza.
Mi sveglio in piena notte senza aria.
Anche stanotte, boccheggiavo su una visione.
Non sono incubi, sono scene del mondo che non avrò.
Ascoltami. Recupero appena. Il petto mi scoppia.
Vivo in debito, d’ossigeno e di vita.
Ti consegno la storia così come viene. E’ la prima volta che la tiro fuori. Ti do le giustificazioni, le bugie che mi restano, ma da questa richiesta non scappare.
Una volta che a Roma c’è una luce che monda, trovalo tu questo vecchio pazzo. Fallo per me.
Digli che hai una storia che puoi usare per spaventarci bambini modelli, digli che dall’istante in cui ho capito che non l’avrei più rivisto, ho perso aderenza alle cose. Digli che ho fatto la fine che merita chi si è tradito, che non ho potuto preghiere che mi salvassero, non lacrime che mi consolassero, digli che ho sempre saputo che non avrei dimenticato e che mentre giuravo, accettando l’inganno, l’ultima cosa che ho visto è l’incrocio rosso di sole a settembre. Gli occhi drogati di mare. Il verde degli occhi, le onde. Il giorno che ci siamo trovati continua a succedere come una didascalia che scorre su un piano sequenza infinito. Ribadisce se stesso in forma di poema vergato sui muri. Invade le strade travolgendo passanti infiacchiti da giorni che non vorrebbero, che non sanno più di non volere.
Accade. Ancora e ancora.
Ti scongiuro sospendi il giudizio. Sarò breve. Accumulo in fretta trascrivendole, facendone parole, le immagini che affollano il mio povero cranio, ma tu, quando sarai sull’ultima pagina, sbrigati. E’ il resoconto più sincero che posso. Cercalo e chiedigli di vederlo. Digli che ti mando io. Digli che gli ho fatto male ogni volta che me ne andavo, ma il male che mi ha restituito era insanabile. E ne ha richiamato ancora e ancora. Adesso però non posso procedere secondo questo ordine. Avverto una specia di nausea. Qualche colpo di tosse. Respiro. La pressione sul torace, ne fa meno di un rantolo.
Le parole si fanno confuse. La runner si arrende. Macellata, smetto di macellare.
Greta ha 29 anni. Ma la sua è la misura di chi esca con un colpo di teatro dalle trame che non esaudiscono l’incanto della bambina eterna.
In questi cinque brevi romanzi di formazione, organizzati come capitoli di un unico romanzo, Greta allaccia le vicende reali a quelle del sogno, ignorando il buon senso che protegge i comuni mortali, agendo come chi voglia stabilire un contatto fra più dimensioni, cede, sulla scena di Roma Nord, all’abbraccio di relazioni diaboliche. Greta rinasce da ciascuno dei racconti come da un breve sonno.
***
Oppio. Assenzio.
Macché.
Oggigiorno la rivolta, la rivoluzione dello scrittore, sono le benzodiazepine. Disconnessione. Slow motion. L’oblio si paga con la merce più rara.
Insisto a sottrarmi a En, dal nome di ninfa benevola, con 5 gocce mi assicura fra le 8 e le 11 ore di incubo diluito. Lunghi piano sequenza. Assenza di finale. Ma insisto a pretendermi lucida. Ad affrontare la notte come un soldato. Senza En, gli incubi non mi durano 11 ore negandomi nel finale. Si completano nello spazio di brevi sketch, ogni finale un risveglio. Stanotte più irrazionale del solito.
Una grossa lucertola col ventre aperto veniva usata da una bambina come un pezzo di pane per raccogliere sugo. Nel piatto, migliaia di insetti che finivano a divorarne le interiora. La bambina rideva.
Dopo aver letto il libro ti chiedo di scrivere una recensione selezionando il link qui sotto. Sarò felice di leggerla per poterti rispondere.
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