Attraverso i miei passi

Non riuscivo a stargli dietro perché marciava a un ritmo forsennato escludendomi dal cono fluorescente rischiarato dalla torcia. Così zampettavo facendomi scudo con le mani aperte, seguendo l’oscillazione indotta nel fogliame al suo passaggio. Stentavo a distinguerne la sagoma, trattenendomi i gesti per non coprire col suono dei miei passi, i suoi, di fatto avanzavo a tentoni. Non ne stavamo uscendo. A un punto imprecisato della notte ci ficcavamo in un punto imprecisato del folto del bosco.

Ruppi il silenzio. Cominciai a chiamarlo, prima sussurrando a malapena poi sgranando la paura in gemiti e piccole urla arrochite. Finché non comparve il perimetro poco meno scuro della mezzanotte, del covo.

Col pavimento lercio di orme e fogliame trascinato dal vento, la tappezzeria a fiori che crollava in una conca lasca, come una voragine al centro del divano, quel posto non era che uno scarabocchio mal riuscito, nel sentore di marcio che il buio dà alla vegetazione. La tana di bestie e fuggiaschi.

Michelangelo indirizzò la torcia all’interno di un mobiletto tarlato. Sobbalzai. Scatolame di latta cosparso di formiche. Ragnatele. Un torso di mela, o forse il cadavere smangiato, di un topo.  Girò la manopola del rubinetto, ne uscì un rivolo color ruggine, poi dopo due o tre singhiozzi, più nulla.

“Se ce la fai a non morire di fame e di sete restiamo un po’ qui a vedere se i cattivi pensieri ti abbandonano”.

“Secondo me dopo è come qua”.

“Dopo cosa?”

“Dopo oltre la vita. Per questo ci si reincarna, perché dopo è pure peggio, dopo è una casa diroccata che ci soffri la fame e la sete, che non puoi scaldarti al calore del corpo che hai accanto, perché per il tuo vicino di cella, a parere del tuo compagno di condanna, sei sbagliata. Anima insufficiente. Secondo me dopo si sta aggrappati alle pareti di una casa che crolla, a misurare gli istanti di eternità che separano dal ritorno sulla Terra a ricevere e scontare un’altra vita. Imperfetta”.

“Secondo me dopo saremo il cibo del cosmo”.

“Energia in fuga, che smania per tornare sangue”

La forma delle orbite di Michelangelo alla luce tremula della candela diventava quella di un santo arreso al destino. Coi palmi aperti e rivolti verso l’alto. Uno che espone le vene dei polsi al bisturi dell’Altissimo. Gli zigomi gli svettavano. Pietre aguzze. Avvertivo gli scricchiolii con cui si assestavano le nostre voci fra le intercapedini, e le onde pacate evocate dalla compostezza di Michelangelo. Le pareti si macchiavano per miriadi di capillari che ramificavano in vene portanti, fino a disegnare lacci robusti come arterie.

“Allora facciamo così: prima di parlare devi chiedermi il permesso, ché quando parli puoi solo parlare di me. Mai di altri e neppure di te. Così come non puoi ostentare foto o mandare addirittura selfie e parti del corpo, se credi potresti mandare foto mie al/ai tuoi amanti, come se le immagini che ti consegno fossero altrettanti santini, icone, verbo che si fa carne”.

“Ne ho una molto bella. Mentre leggi e c’è una gatta nera accoccolata sulle tue gambe”. (Alessandra Macrì) 

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